PERCHE' NON SUCCEDA DI NUOVO (PER CAPIRE, PER RIFLETTERE, PER IMPARARE)

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RIFLESSIONI E APPROFONDIMENTI

Anche il Club Alpino Italiano ha preso posizione, con un articolo di Gian Carlo Nardi su "Lo Scarpone" di Maggio 2006: leggi l'articolo

Una piccola prima riflessione è questa:
- un alpinista è una persona (e io lo sono stato) che organizza cose folli, rischiando la sua vita, ma lo fa con cognizione di causa, sa che sta rischiando, e si prepara per questo. Preparazione maniacale, studiata nei dettagli, ogni impresa folle richiede almeno sei mesi in cui non pensi che a quello. Ti alleni in palestra e in ambiente tutti giorni per 6 mesi, e in tutto l'altro tempo libero studi le carte, prepari l'attrezzatura (la migliore in commercio, il top del top), ti prepari psicologicamente, prevedi le crisi, le difficoltà, le vie di fuga, studi i tuoi comportamenti nelle situazioni limite (vai per esempio a passare qualche notte all'aperto sul Monte Bianco, per capire come reagisce il tuo corpo e la tua testa). E' un grosso lavoro, come potete capire (io lo potevo fare perchè ero dipendente comunale, devo essere sincero... ora non potrei più!). E ogni alpinista sa che può contare solo su di sè, non c'è gruppo, non c'è organizzazione esterna (al limite quella ti accompagna fino al campo base, poi sei tu...).
- questi ragazzi che si sono iscritti alla traversata Appennina 2005 (5 o 6 li conosciamo bene, perchè soci Boscaglia) non erano in questo spirito. Nessuno di loro era un vero alpinista. Nessuno di loro mi pare avesse studiato i dettagli dell'impresa. Ma l'impresa lo avrebbe richiesto, perchè era una cosa estrema, una cosa per uomini duri (avete presente 35 km in montagna in inverno, con le giornate corte e il maltempo?). Perchè nessuno di loro si era comportato da alpinista, e sebbene non lo fosse nell'animo si era iscritto lo stesso? Forse perchè si AFFIDAVANO all'organizzazione? Se è così, occorrerebbe capire quali informazioni sono state date e come è stato chiarito l'aspetto delle reciproche responsabilità.

Luca Gianotti

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E passato un po' di tempo, cominciano ad arrivare alcuni interventi più "a freddo", cominciamo con quello di Manuel Lugli, medico, alpinista, organizzatore di spedizioni alpinistiche, per anni nel Soccorso Alpino:

Rispondo volentieri all’invito del caro amico Luca di esprimere un’opinione in merito alla disgrazia di Appennina 2005. La sicurezza in montagna, e in outdoor in genere, per motivi di passione, ma anche professionali, è un aspetto che da sempre seguo con la massima attenzione.
Ho letto le testimonianze riportate sul sito della Boscaglia ed ho letto la presentazione dell’ escursione sul sito di OtpGea. Credo sia generalmente abbastanza difficile dare opinioni equilibrate su questo tipo di eventi quando non sono vissuti in prima persona. Farò comunque qualche riflessione, cercando di vedere la questione soprattutto da un punto di vista tecnico-organizzativo e gestionale, che sono poi gli aspetti oggettivamente più valutabili.

Partendo dall’analisi dei dati che si possono ricavare dalle informazioni riportate sul sito OtpGea, peraltro piuttosto scarne per un’escursione di questa lunghezza e durata, ho potuto identificare una serie di “stonature” piuttosto evidenti.

Primo. si tratta di due itinerari piuttosto impegnativi dal punto di vista delle distanze, 65 e 130 km da percorrere in tre e quattro giorni. Sarebbe un itinerario impegnativo d’estate; d’inverno, con giornate corte e clima imprevedibile, l’impegno aumenta esponenzialmente. L’itinerario lungo viene presentato facendo uso di aggettivi tipo integralista, estremista, masochista che, pur ironici nelle intenzioni, lasciano supporre un impegno richiesto decisamente elevato. Lasciando perdere tutti questi opinabili “isti”, una percorrenza media giornaliera di oltre 30 km in Appennino, d’inverno, richiede uno spirito ed una forma che supera senz’altro quelli normalmente richiesti ad un escursionista medio. Ed infatti “Appennina” viene, correttamente, indicata come escursione EE, cioè per Escursionisti Esperti. La descrizione della categoria EE recita: “Itinerari non sempre segnalati e che richiedono una buona capacità di muoversi sui vari terreni di montagna. Possono essere sentieri o anche labili tracce che si snodano su terreno impervio o scosceso, con pendii ripidi e scivolosi, ghiaioni e brevi nevai superabili senza l'uso di attrezzatura alpinistica.Necessitano di una buona esperienza di montagna, fermezza di piede e una buona preparazione fisica. Occorre inoltre avere un equipaggiamento ed attrezzatura adeguati, oltre ad un buon senso d’orientamento.”
Purtroppo ad un corretto inquadramento del tipo di escursione, non segue un’adeguata gestione del numero di partecipanti e soprattutto appare evidente l’impossibilità/disinteresse oggettivo di conoscere l’effettiva preparazione dei partecipanti. Su di un percorso invernale, innevato, EE, aperto a ben 37 persone, promosso a tutti gli effetti come gita “organizzata”, c’è un solo accompagnatore. Ora, con tutta la buona volontà, ad un solo accompagnatore, per quanto competente, è fisicamente impossibile seguire in maniera adeguata il gruppo. Nella presentazione non ci sono notizie specifiche sulla conduzione della gita, sul livello di “gestione” dei partecipanti. Solo il nome di un generico accompagnatore. C’è invece un curioso appello a non fare il “tutto esaurito”, ma non si capisce chi dovrebbe o potrebbe controllare la cosa; se il tetto massimo fissato è troppo alto per le condizioni del terreno o climatiche, sono gli organizzatori a dover abbassare il numero, non i partecipanti a non iscriversi (!) Ma qui sembra essere più importante riempire il bus.

Secondo. L’Appennino è in veste invernale a tutti gli effetti, innevato abbondantemente (come da chiara dichiarazione nella presentazione sul sito). Chiunque abbia un minimo di esperienza di escursioni invernali in Appennino, sa che questo significa quasi sicuramente:
1) trovare ghiaccio – cosa che poi si è puntualmente verificata, provocando solo per pura fortuna danni limitati nelle scivolate descritte. Nella mia esperienza di Soccorso Alpino, è capitato spessissimo di soccorrere escursionisti “esperti” senza ramponi in Appennino.
Fa dunque specie che a nessuno degli organizzatori – al di là di un generico invito a non sottovalutare la gita - sia venuto in mente di consigliare ai partecipanti di portarsi un paio di ramponcini da escursionismo che consentono nel 99 % dei casi di togliersi da ogni guaio. Peraltro la descrizione di escursione EE, seppur in maniera piuttosto vaga e generica, dice chiaramente che è richiesta un’attrezzatura adeguata.
2) Trovarsi di fronte variazioni climatiche anche drammatiche, con tutto ciò che ne consegue in termini di temperature ed orientamento.

Terzo. La percorrenza media in presenza di neve e/o ghiaccio, senza un paio di ciaspole sci o ramponi (al di là di problemi veri e propri di progressione), cala drasticamente e richiede una quantità di energia molto superiore. Anche qui la valutazione di ridurre la percorrenza o di trovare percorsi alternativi avrebbe dovuto essere presa in considerazione, tenuto conto della già citata impossibilità di conoscere la preparazione psico-tecnico-fisica dei partecipanti.

A questo punto abbiamo già rilevato carenze più o meno gravi nella fase organizzativa della gita. Ma quando passiamo ad esaminare lo svolgersi della gita stessa, la superficialità nella gestione diventa davvero evidente. Prima fra tutti, la più grave: nessuno degli organizzatori ha controllato uno straccio di bollettino meteo prima della partenza ? O peggio: se questo è stato fatto, forse è stato sottovalutato od ignorato ? In tutti i corsi CAI, ma non solo, la prima regola da osservare nella pianificazione di una gita, è quella del controllo del bollettino nivometeorologico, senza il quale non ci si dovrebbe proprio muovere. Chiunque si sia mosso in Appennino d’inverno, sa che, data la conformazione del territorio e la sua vicinanza al mare, si possono verificare condizioni meteorologiche molto particolari, come quelle verificatesi durante la gita in oggetto. Si tratta di vere e proprie bufere, molto violente, soprattutto in prossimità dei crinali, con temperature estremamente basse causate da venti fortissimi e visibilità nulla data dalla neve o dai cristalli di ghiaccio trasportati dal vento e dalla nebbia. Per lavoro ho avuto occasione di muovermi sulle montagne di quasi tutto il mondo e posso garantire che certe bufere appenniniche non hanno nulla da invidiare a quelle alpine, himalayane o andine, in termini di violenza. Quindi non solo si sarebbero dovute verificare attentamente le previsioni meteorolgiche, ma una volta sul campo, avrebbe dovuto apparire più che evidente (soprattutto considerato il fatto che si trattava della decima edizione !) che le condizioni sarebbero drammaticamente peggiorate salendo verso le zone di crinale. E di qui si sarebbe dovuta prendere in considerazione l’opportunità di variare l’itinerario o rinunciare. L’ esperienza personale mi ha dimostrato che muoversi nella bufera appenninica è davvero molto difficile, anche con buona conoscenza del terreno, per il senso di disorientamento/intontimento dato dalla concomitanza di nebbia e vento violento. Posso ben immaginare dunque la drammaticità della situazione degli escursionisti e l’evolversi della situazione che per puro caso non ha portato ad un bilancio ben più tragico.

Il mio mestiere da oltre dieci anni è organizzare trekking, spedizioni alpinistiche da una parte e corse podistiche in outdoor dall’altra. Ho inoltre un’esperienza quasi ventennale come Istruttore Nazionale di Sci Alpinismo del Club Alpino Italiano.
Quello che ho imparato in questi anni di attività, è stata anzitutto l’importanza di una pianificazione estremamente seria prima delle gite, che siano queste salite himalayane, gite sci-alpinistiche od escursioni appenniniche. Nella mia esperienza professionale rientra l’organizzazione di gare podistiche in deserto, con tutto ciò che questo comporta, andando il numero di partecipanti dalle venti fino alle centoquaranta persone. Qui le condizioni sono per ovvi motivi molto diverse rispetto ad una montagna invernale, ma possono divenire altrettanto pericolose in termini di visibilità e quindi di orientamento, con conseguenze paragonabili per gravità. Ora, in termini gestionali, quando le condizioni diventano davvero critiche – una tempesta di sabbbia ad esempio – pur in presenza di una chiara tracciatura del percorso, esistono due sole alternative che usualmente applichiamo: l’annullamento della prova, se le condizioni sono di visibilità davvero nulla od una gara scrupolosamente “guidata” dall’organizzazione, con i mezzi dell’organizzazione che aprono e chiudono “a scopa” la pista ed i concorrenti che si muovono seguendo rigorosamente a vista la traccia ed i mezzi. Inoltre il rapporto tra staff dell’organizzazione e partecipanti è mediamente di uno a 7-8, con uno standard di sicurezza decisamente buono. Che c’entra questo con la montagna ? E’chiaro che qui sto parlando di un’organizzazione di professionisti che si dedicano solo a questo e quindi vanno fatti i dovuti distinguo rispetto ad un’associazione di dilettanti amatori. Ma vorrei mettere proprio l’accento su come troppo spesso questo tipo di associazioni, in nome di una “libertà” d’azione talvolta discutibile, quando non addirittura con approcci “avventurenelmondistici”– ed a fronte di una preparazione tecnica ed atletica spesso drammaticamente bassa – si lanci in “imprese” alpinistico-escursionistiche ben al di là dei propri mezzi, con risultati a volte drammatici, o tragici come in questo caso. Non è un caso che i peggiori incidenti in montagna degli anni recenti, vedano coinvolti gruppi spontanei od amatoriali spensieratamente disorganizzati, che siano oratori, piccole associazioni, gruppi scout et similia. Non va fatto naturalmente di tutte le erbe un fascio, ma troppo spesso l’approssimazione e l’affidamento ad alla buona sorte sostituiscono in queste realtà la preparazione ed una corretta e scrupolosa pianificazione. Un po’ di presunzione/incoscienza in meno e di conoscenza in più, come in molti campi dell’attività umana che coinvolgono un grado di rischio, sarebbero davvero auspicabili e potrebbero senz’altro ridurre i rischi o addirittura evitare vicende dolorose come quelle di Appennina 2005.

Manuel Lugli

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Un altro intervento ci arriva da Claudio Ansaloni:

RESPONSABILITA ASSOCIATIVE ED INDIVIDUALI DELL'OUTDOOR

Forse, se avessi dovuto scrivere un articolo per una rivista o per un qualunque quotidiano o anche solo per un giornalino di quartiere, il termine "OUTDOOR" sarebbe stato sostituito con AVVENTURA. Già perchè “l’avventura” vende. E parecchio. Da più di 10 anni.
Basta guardare nelle nostre città. Circolano fuoristrada che non hanno mai visto una pozza di fango o un duna di sabbia. E non si dica che sono più sicuri. Fior di test dimostrano che per una guida veloce o cittadina, sono l'esatto contrario.
E si vede nell’abbigliamento. Ci riempiamo di pantaloni da "lavoro" e camicie africane pieni di tasche in ogni dove.
E che dire dell'odiosa abitudine di vestirsi in stile "mimetico"? Sconvolgente il fatto che la moda sia nata in tempi di guerra. E via! Coi pantaloni, le camicie, gonne e persino vestiti da sera “mimetizzati” da deserto o da jungla. E guardiamo: cosa fa successo in tv? Fra il ciarpame diffuso, nell’immondezzaio dei programmi, ecco “l’isola dei famosi” dove artisti dimenticati e subrettine d’assalto, si contendono un frammento di notorietà vivendo la loro avventura “estrema”.
Avventura! Avventura a tutti i costi!
Questo è il retroterra culturale e psicologico di chi si approccia a certe attività. Qualunque associazione che propone qualsiasi esperienza outdoor si muove in questo terreno.
Dal mare, al deserto. Dalla bici, alla montagna.
Nulla importa se sia un’associazione di grandi professionisti o di amici che vogliono aggregare. Occorre NON DIMENTICARE MAI che il fruitore delle proprie proposte spesso è alla ricerca della propria avventura. Più o meno consapevolmente sta cercando il proprio limite, la propria sfida. Non l’armonia, non la comprensione del luogo con i suoi ritmi e le sue ricchezze a volte diverse dalle proprie. Ma la vittoria su di esso. Come se si potesse vincere il mare o la montagna o i deserti. Illusioni presuntuose. Al massimo si concedono a noi. Ed in questi terreni, che quasi mai conosce a fondo, tenderà ad affidarsi a chi gliela propone. Che si voglia o no. Quando si organizza qualcosa si viene automaticamente eletti a responsabili etici e morali di quel evento. E’ una sorta di affidamento psicologico da parte del fruitore. Si badi bene non parlo volutamente di cliente, perché questo meccanismo psicologico non ha livello di professionalità. Se si aderisce ad una iniziativa si sottintende che chi la propone la conosca. O comunque, se la propone, ne sappia qualcosa in più. Nel rischio e nella bellezza.
Questo succede anche per gruppi di amici o addirittura (attenzione bene lo dice il Codice Civile) per persone incontrate in luoghi difficili alle quali si concede assistenza (vedi incontri su ghiacciai).
Non so se l’associazione che ha organizzato quel evento era di professionisti, amatori, amici o che altro. E francamente non mi interessa perché, non ha importanza. A quella regola non si sfugge.
Con questa consapevolezza l’organizzatore deve predisporre, ragionevolmente ai mezzi a disposizione, tutte le misure di sicurezza che servono. Ed in base al livello di sicurezza che si è raggiunto, informare il fruitore sulle attrezzature necessarie e sulla natura delle difficoltà. Consigliarlo, aiutarlo a scegliere fino al convincimento per la non partecipazione all’ evento se necessario.
D’altra parte è pure vero che spessissimo, risulta estremamente difficile convincere qualcuno a desistere dai propri propositi “avventurosi”. Né lo si può costringere, visto che “la montagna è di tutti”. Si può però essere estremamente chiari sui rischi che si corrono chiarendosi sulle responsabilità che, a questo punto, diventano da organizzative a individuali.
Un altro aspetto riguarda la superficialità di chi aderisce a certe iniziative.
Certo, perché non ci si può nascondere che spesso molti non leggono neppure il prospetto che viene dato. Nelle mie esperienze di accompagnatore di gruppi (in montagna, in mare come skipper, nei deserti durante le maratone estreme che organizziamo) vedo una alta percentuale che si presenta senza aver letto neppure il prospetto informativo. E questo significa: senza attrezzatura adeguata o senza la preparazione necessaria o senza l’autorizzazione medica obbligatoria.
Escluderli diventa difficilissimo. Concedere l’accesso pericoloso.
In caso di guai il rischio di sentirsi rinfacciare “ma io credevo” “ma tu dovevi” diventa una certezza.
Superficialità e a volte presunzione. Da entrambe le parti. Ecco l’origine di molti drammi.

Claudio Ansaloni
Accompagnatore Boscaglia
Skipper e Istruttore di vela
Organizza per la ZitoWay corse in deserti africani.
Per 15 anni Aiuto-istruttore del Cai in corsi Alpinismo.
Per 20 anni membro del Corpo Nazionale Soccorso Alpino.

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E’ arrivato anche per me il momento dell’analisi. E’ passato un mese. Già molte cose sono più chiare, adesso, vorrei aggiungere alcuni punti che trovo importantissimi e che non sono ancora stati toccati.

QUANDO IL CERVELLO NON SA PIU’ PENSARE
Pochi giorni fa ho fatto un esperimento: ho fatto un’escursione piuttosto impegnativa, circa 18 km (la metà di quella in cui è scomparso Stefano), nella neve, il tempo era bellissimo (non c’era quindi l’aggravante della bufera), la giornata era cortissima (c’era quindi la preoccupazione dell’arrivo del buio), con un’aggravante psicologica: non conoscevo il percorso, ed era un percorso impegnativo dal punto di vista dell’orientamento. E mi sono osservato, ho guardato dal di fuori come mi stavo comportando. Fino a un certo punto tutto bene, fisicamente nessun problema, la mente sempre reattiva, consultare la carta, orientarsi, “sentire” la direzione, via… consultare la carta, orientarsi, sentire la direzione, via.
Poi, verso le 14.30-15 è cambiato qualcosa: mancava poco più di un’ora al buio, e la stanchezza, subdolamente, senza annunciarsi, arrivava strisciando. L’adrenalina in quei casi sopperisce molto, l’adrenalina ci fa sentire meno stanchi, ci fa andare avanti.
Ma la mente non è più così lucida. Andavo come un cavallo stanco. Le decisioni erano prese più con l’istinto che con il ragionamento. Anche la carta la consultavo meno. Le gambe dicevano: “Andiamo che è tardi” e partivano. Il cervello doveva pensare mentre le gambe erano già partite. E pensava molto più lentamente. Molto meno lucidamente.
Poi era quasi buio e sono arrivato.
Di solito, senza osservarsi, questi processi non li si nota. Si sente solo l’adrenalina. Si pensa che l’adrenalina sopperisca in toto. Non è vero. L’adrenalina, come l’entusiasmo, ti possono fregare.
Veniamo a parlare dell’accompagnatore dell’escursione maledetta. L’accompagnatore in questione ha 27 persone con sé, e fin che tutto va bene, non se ne accorge. L’accompagnatore, come gli altri, ha accumulato stanchezza il giorno prima, perché il primo giorno ha già camminato 25 km. E, anche se non sembra, si sentono. E come. Nella bufera, quando la fatica si fa enorme, la paura è grande, lo spaesamento pure, l’accompagnatore non è “fuori dai giochi”, non è un essere superiore in grado di evitare certi meccanismi umani, anche lui è “dentro”, anche lui è affaticato, spaesato, spaventato.
La sua capacità di pensare è ridotta.
La sua lucidità ai minimi termini.
Ma gli altri non lo sanno…

EFFETTO SPIAGGIAMENTO
Avete presente le balene, quando per una causa non ancora del tutto spiegata (ma qui poco importa), vanno a spiaggiarsi sulle coste dell’Australia?
Una alla volta, seguendo quella davanti, vanno nella direzione sbagliata, il loro radar, il loro sonar, non funziona più. Arrivano sulla spiaggia, e quasi sempre, purtroppo, muoiono.
Così è successo a Stefano e agli altri.
Ognuno di loro ha seguito quello davanti, e si è spiaggiato.
Ognuno di loro era convinto che “là davanti qualcuno sapesse cosa fare”. La bufera non consentiva di vedere se non ombre, quindi l’unica cosa da fare era affidarsi.
Ma chi seguivano? L’accompagnatore era con il gruppetto che è sceso da un lato, con gli ultimi, insomma. Dunque gli altri seguivano solo chi avevano davanti, ma davanti il primo poteva pure spiaggiarsi. Loro non lo avrebbero saputo, se non dopo.


PUNTO DI NON RITORNO
E questo è il problema. Capire il punto di non ritorno, quel punto che non si dovrebbe mai superare, ma che non si può sapere qual’ è. E’ un punto etereo, evanescente. Non è una scritta sulla neve con vernice rossa: “Tornate indietro!”. E’ qualcosa di sottile, che non sapremo mai più dove collocare, adesso che siamo qui. Ma che lì c’era, e non è stato visto. O è stato ignorato, perché altri meccanismi psicologici lo hanno sopravanzato. Quali? Quelli che abbiamo detto prima: l’affidarsi a qualcuno che là davanti sapesse cosa stava facendo, cosa stava succedendo, ecc.
Non è un atto di accusa, nei confronti dell’accompagnatore, né dei partecipanti, attenzione. Fin qui stiamo descrivendo comportamenti psicologici automatici, di causa-effetto.
Dove sta l’errore? O meglio, gli errori?
Eccoli:

1. IL GRUPPO DEVE STARE INSIEME, NEI MOMENTI DIFFICILI
2. IN IMPRESE ESTREME L’ACCOMPAGNATORE NON DEVE ESSERE DENTRO, MA FUORI


IL GRUPPO DEVE STARE INSIEME, NEI MOMENTI DIFFICILI
Sono 23 anni che faccio la guida. E dunque la mia prospettiva è a senso unico. Non mi ricordo più di quando mi facevo accompagnare da altri. Dal mio punto di vista di guida il fatto che nei momenti difficili il gruppo dovesse stare unito era chiaro. I motivi li capivo soprattutto io, perché erano a mio vantaggio: il gruppo doveva stare unito perché così io ne avrei potuto garantire la sicurezza di tutti; perché una guida quando non vede anche uno solo dei suoi accompagnati, come un papà, si allarma, e se la guida si allarma, poi si stressa e quindi è meno lucido; perché un gruppo unito è come una testuggine, insieme si vince, ecc. Tutte cose per me logiche, importanti, scontate.
I partecipanti queste logiche non le capiscono sempre.
Ma chi si fa accompagnare c’è un altro aspetto che può capire meglio, un aspetto che mi era sfuggito fino ad oggi, e che ho capito solo cercando di identificarmi negli accompagnati di quel maledetto giorno.
Il gruppo deve stare insieme, nei momenti difficili, anche perché in quel modo gli accompagnati sono più consapevoli di cosa sta succedendo, gli accompagnati possono vedere negli occhi il loro accompagnatore e capire se è ancora in grado di essere il loro leader oppure se qualcun altro gli deve subentrare. Perché se il gruppo non è unito c’è il rischio di seguire le ombre davanti e di spiaggiarsi.
Dunque se il gruppo è unito c’è maggior consapevolezza, sappiamo in che condizione ci troviamo. Possiamo aiutarci. E siccome la guida è “dentro i giochi”, e quindi anche la guida può avere i suoi momenti di crisi, andare in panico, ferirsi, perdere lucidità, bè, noi accompagnati dobbiamo saperlo, per decidere il da farsi: tornare indietro, eleggere un’altra guida, unirsi collaborando tutti per uscirne vivi.
Quello che non è successo il triste giorno di cui stiamo parlando.

IN IMPRESE ESTREME L’ACCOMPAGNATORE NON DEVE ESSERE DENTRO, MA FUORI
Il punto precedente sarebbe sufficiente come precauzione nel caso di escursioni normali, in cui l’imprevisto è raro. Ma in escursioni quali quella di cui stiamo parlando non ci avrebbe salvato del tutto. Manca un altro accorgimento fondamentale, a parte gli errori ormai già detti (numero veramente troppo elevato di partecipanti, sottostima delle condizioni meteo, sovrastima delle proprie capacità dato da un eccesso di pericoloso entusiasmo).
In imprese estreme come era quella di cui in oggetto (e sfido chiunque a mettere in discussione che quella non è classificabile come impresa estrema, fatevi avanti, voi che minimizzate!) non è sufficiente uno o più accompagnatori “dentro i giochi”, perché come abbiamo visto prima, se sei dentro i giochi a un certo punto anche tu non sei più lucido, dunque gli organizzatori devono essere “fuori dai giochi”.
Ve l’immaginate la maratona di New York con gli organizzatori (la sicurezza, quelli che controllano che i partecipanti vadano sul percorso giusto, i soccorsi) che dicono: “quest’anno anche noi vogliamo partecipare tutti alla Maratona di New York, ma non vi preoccupate, garantiremo sicurezza, orientamento e soccorso dal di dentro, mentre corriamo”.
Ve l’immaginate?
Io ho partecipato ad un’unica gara estrema in vita mia, si chiamava Marathon Bike del Sahara, erano 6 tappe in bicicletta nel deserto del Sahara algerino, avevo 30 anni, erano 110 km al giorno nella sabbia. Quelle cose tipo Iron Man, per intenderci. Per dare un’idea della lucidità che aveva la mia mente: del deserto mi ricordo pochissimo, poche immagini, solo ricordo che erano posti bellissimi, che avrei voluto fermarmi, scendere dalla bici, fermarmi con quei bambini a giocare, sedermi nella sabbia a riposare, ma invece pedalavo… pedalavo… pedalavo...
Com’era organizzato quell’evento? C’erano 14 concorrenti, da tutto i mondo. E c’erano almeno il doppio di organizzatori. 14 automezzi tra fuoristrada che controllavano il passaggio dei concorrenti nei punti chiave, la cisterna dell’acqua, chi preparava un rifornimento d’emergenza a metà percorso, beduini che montavano il campo tende, altri fuoristrada che seguivano i concorrenti illuminando il percorso se questi rimanevano attardati e arrivavano col buio.
Evvabbè, mi direte. Quella era una cosa per Iron Man, nel Sahara, questa un’escursione sull’Appennino dietro casa. Minimizzate? Allora non ci siamo capiti. Allora forse non avete letto bene il racconto dei superstiti. Allora forse non avete letto bene cosa scrivono gli esperti delle condizioni meteorologiche estreme, patagoniche, che l’Appennino settentrionale può riservarvi. Allora, provate voi, a camminare per 35 km nella bufera, in inverno, se siete capaci! Sfido chiunque, anche Messner, che, conoscendolo, so non proseguirebbe.
Gli organizzatori dovevano stare fuori dai giochi. Dovevano essere almeno in 10, mettersi nei punti chiave, dotati di radio ricetrasmittenti, attrezzatura per il soccorso, bandierine per segnare il percorso nella nebbia (o meglio ancora avrebbero dovuto segnare il percorso nei giorni precedenti), per poter essere lucidi e prendere le decisioni giuste al momento giusto.
Ci siamo capiti?
D’ora in poi guardate negli occhi chi organizza e chi accompagna, sempre!

Luca Gianotti
05.01.2006
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Una citazione da un piccolo libro prezioso, lucida e crudele:

"Entusiasmo: utile se ci si vuole suicidare, altrimenti lo si può lasciare ai novizi e a quelli che vanno sui ghiacciai coi sandali da mare. Gli entusiasti in montagna sono più pericolosi delle valanghe, e a esse somigliano per irruenza e per come si buttano giù nella discesa. Si trova specie nei giovani o nei giovanili, per carattere fanatici e dispersivi. Cambiate itinerario, appena sentite rimescolare dell'entusiasmo intorno a voi. Se vi si rimescola dentro, allora restate al rifugio"

(da Paolo Morelli, "Vademecum per perdersi in montagna" Nottetempo)

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Ho incontrato Stefano per la prima ed unica volta durante una due-giorni nelle foreste casentinesi nell’autunno 2005. E’ stata una delle persone con cui ho parlato di piu’, vista la condivisa passione per la natura, e mi è rimasto impresso proprio per questo, e per il carattere positivo e la sua voglia di stare in compagnia. Quando ho saputo della disgrazia non riuscivo a capacitarmi. Ritengo, ma mi pare ormai riconosciuto, che siano stati fatti errori importanti e grossolani, nel non aver deciso di tornare indietro o scegliere un’alternativa plausibile, nell’equipaggiamento, nel non essersi impegnatii a restare uniti magari attraverso una corda (che probabilmente non era stata portata). Quando ho avuto la notizia, non conoscendo il posto, ho cercato informazioni su internet; in alcuni siti il percorso veniva presentato come facile d’estate, mentre in inverno richiedeva ramponi, piccozza, ed era raccomandato ad escursionisti esperti.

Gli escursionisti esperti non sono persone forti che sanno percorrere o hanno percorso molti km, ma quelli che hanno capacità di orientamento, capacità di previsione e di risoluzione delle difficoltà che si assumono di affrontare, comprensione dei percorsi e delle loro difficoltà.

Purtroppo la montagna viene spesso vissuta come un’attività sportiva per mettere alla prova la propria forza e resistenza con molta distrazione per tutto il resto, ma questo è un approccio molto limitato. Un ambiente naturale è molto di più. Per questo si dovrebbe imparare a misurarsi non nella propria forza ma nel proprio relativismo, cioè imparare a rapportare se stessi all’ambiente in ogni aspetto. Ci si dovrebbe dedicare a comprendere ciò che ci circonda nei suoi vari aspetti, fare attenzione alle caratteristiche dell’ambiente, al proprio organismo e alle sue reazioni, al grado di autonomia che si possiede, capire come e dove si sta procedendo, è così che si fa esperienza e che si può poi partecipare con coscienza alle scelte di gruppo senza farsi trascinare o affrontare sconsideratamente situazioni di pericolo.

In alcuni dei commenti che ho letto purtroppo ritrovo un’incoscienza preoccupante.

Riguardo la frase “in montagna c’è sempre del rischio” dico questo: la montagna è un ambiente che presenta difficoltà, non per questo chi percorre la montagna va incontro a dei rischi maggiori di quelli che fanno parte del nostro vivere quotidiano. Il grado di difficoltà che una persona si assume dev’essere proporzionato alla propria capacità di affrontare il problema e quindi a un grado di rischio che non mette a repentaglio né la vita né la salute, altrimenti o si è pazzi o si è incoscienti . Starà a ognuno di noi rendersi consapevole e scegliere il grado di rischio che è in grado di affrontare. Ritengo che generalmente in un percorso escursionistico il grado di rischio di farsi male sia basso, salvo che non ci sia una sottovalutazione considerevole delle difficoltà e delle avversità

La frase “superare i propri limiti” la trovo particolarmente alla moda e di poco valore. Con i propri limiti si deve semplicemente convivere. Forse il desiderio è piuttosto quello di sviluppare abilità per affrontare situazioni nuove e difficili mettendo alla prova la propria forza fisica e la propria capacità di trovare soluzioni in momenti di tensione psicologica. Comunque certo un escursionista non va in montagna per superare i propri limiti, altrimenti dovrebbe dedicarsi ad un alpinismo esasperato o ad attività sportive esasperate. Penso che purtoppo ci sia tanta immaturità e superficialità in molte persone che affrontano la montagna, si dovrebbe essere più semplici e umili quando la si percorre, essere allievi della montagna e di chi la sa percorrere veramente.

Ma queste sono parole,

quello che rimane sono i fatti,

quello su cui si può lavorare è la coscienza, la consapevolezza e il senso di responsabilità verso sé e gli altri.

Alessandra di Verona - 10/01/2006

 

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